L’antico torchio di Maisano

“L’ingegno dell’uomo e la forza della natura, uniti per darci i più antichi prodotti della terra: l’olio e il vino”.

In occasione della ristrutturazione di questo rustico, posto all’ingresso del vecchio nucleo dell’abitato di Maisano, nella località che ancora oggi gli anziani chiamano “al Törc” sono riemerse le tracce di un antico strumento molto usato nella civiltà contadina: il Torchio. L’odierno proprietario Vittorio Danelli apre al pubblico questo scrigno prezioso durante la manifestazione “I cuurt da Maisan“.

Nel “Catasto Teresiano” (dal nome dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria), compilato il 22 gennaio 1732, aggiornato il 13 agosto 1751, risulta che i fratelli: “Turba Prete Stefano e Giò Batta fu Antonio, Roncareggi Angelo fu Francesco ed Erra Giò Batta fu Carlo Francesco, indivisi, (quali eredi) possedevano a Maisano, sul mappale 1441 un Torchio d’olio d’affitto”.

In un disegno datato 8 marzo 1838 riguardante un progetto di allargamento e rettifica dell’attuale via San Rocco lo stesso viene indicato come “Torchio Gianorini”. Non è chiaro se quest’ultimo sia il proprietario o sia l’affittuario; certo è che nel 1840 Giuseppe Turba, figurando nell’elenco delle persone che pagano la Tassa d’Arti e Commercio nel Comune di Valbrona, risulta il “proprietario del torchio” in questione.

Nel redigere il Catasto Lombardo Veneto detto anche Catasto Cessato, approvato dalla Giunta del Censimento con decreto 22 dicembre 1873, cambiano la numerazione dei mappali e i proprietari, mentre si aggiunge un altro prodotto da torchio: l’uva.

Il mappale 389 “Fabbricato per Torchio vino” è intestato ora a diversi proprietari, tutti dal ceppo Turba: Turba Sacerdote Giacomo Carlo, Annunciata fratelli e sorelle furono Antonio, Turba Carlo, Antonio, Giacomo, Annunciata e Teresa, fratelli e sorelle furono Gaetano, questi ultimi pupilli in tutela della propria madre Acquistapace Margherita, zii e nipoti.

Era formato da un’enorme trave in legno di castagno lunga parecchi metri, imperniata da un lato su una vite senza fine in legno di noce (era questo l’elemento più pregiato e artistico, purtroppo entrambi sono andati persi o distrutti) poggiante su due grandi pietre di serizzo.
Questi enormi massi, probabilmente erano già presenti in loco, ancor prima che venissero edificate le case. Il fatto si evince dal “voltino” in legno presente all’estremità di questi due blocchi (foto 3 sopra) che proseguono nella proprietà a fianco. Dall’altro lato il tronco era retto da un’incastellatura: la pressa del torchio. Il funzionamento era semplice: alla base della vite senza fine, erano incastrati quattro bastoni, le leve su cui gli addetti spingevano per far girare la vite.
Questa, opportunamente ingrassata, faceva abbassare l’enorme tronco sul piano di spremitura. La forza umana così utilizzata veniva moltiplicata dal lungo “braccio di leva”. Da questa forte pressione di parecchie tonnellate sulla pressa si otteneva la frantumazione del prodotto in una sorta di prima lavorazione che seguitava con un ulteriore sminuzzatura nel caseggiato precedente a questo, per spostarlo ancora nell’antecedente locale e dopo un’ulteriore spremitura, si otteneva il prodotto finito. Tutto questo era possibile in quanto i tre proprietari erano fratelli (due uomini e una donna).

Da notare che la settecentesca denominazione generica adottata “Torchio d’olio”, in mancanza di ulteriori specificazioni, è da intendersi applicata alla produzione di olio di noci e di altri semi, quali ravizzone, lino e faggiole (i frutti del faggio- albero molto diffuso in valle).

Il ravizzone è un erba della famiglia delle crocifere (brassica rapa oleifera) molto simile alla colza, coltivata oltre che per il foraggio, anche per ricavare olio di semi.
Dai semi di lino si ricavava, oltre alla farina, un olio comune, l’olio di linosa.
Dalla spremitura si otteneva l’olio per uso domestico, dallo scarto si produceva il “panell” per alimentare le bestie. Nulla quindi andava sprecato. L’olio di lino aveva anche un effetto medicamentoso, mentre l’olio di noci serviva per uso domestico e per alimentare le lampade.

Altri torchi erano presenti a Valbrona, nelle frazioni di Visino e Candalino.
A Visino, Donato Vicini possiede sul mappale 703 “una casa propria d’abitazione con un pezzo di orto e una porzione di casa con annesso Torchio” (corrispondente all’attuale civico n° 46 di Via Roma dove alcuni decenni fa c’era il prestinaio Rigamonti).
Anche Giuseppe Gorio fu Ferdinando possiede sul mappale 730 oltre a “una porzione di casa per propria abitazione, un altra porzione di casa con annesso Torchio d’affitto”. (Il mappale 730 corrisponde oggi alla ex proprietà De Herra con ingresso da Via Vigna).
A Candalino nel 1806 funzionava “un torchio d’olio” gestito in comproprietà da Tagliasacchi Carlo e De Herra Giovan Battista. Nel 1845 risulta intestato a Beretta Giovan Battista. Era questo l’unico torchio azionato ad acqua, quella che scorreva placidamente nella Valle di Candalino.

Ogni contadino lavorava la sua piccola vigna, vendemmiava in proprio, portava l’uva al torchio, vinificava nel proprio “cantinell”.
Si coltivavano uve “malvasia, moscatella, lugliatica, balzemina, rossera, corbera e pinot”.

I toponimi “via vigna” “vignola” a Visino, “vignata” a Osigo, la “vigna di Roncaiolo”, la “vigna di Canate” sopra Maisano, detta Crocetta di Vai, la “vigna della Cassina”, la “vigna ai Fornagg” a “San Martin” ecc. testimoniano come era diffusa la coltivazione della vite praticata solo per consumi familiari.

La vite, forse la pianta più soggetta a malattie devastanti: se la crittogama (fungo parassita della pianta) era il flagello dominante, grazie alla solforazione si riusciva in un certo senso a farvi fronte, la fillossera (un insetto) fu la causa della devastazione che provocò verso la fine del diciannovesimo secolo, la repentina scomparsa dei vigneti.

Allora si dovettero rinnovare i vitigni introducendo la più resistente “vite americana” con le due varietà Isabella (o Fragola) foto 1 sopra e Catawba (Questa cultivar di uva è stato allevato nel 1800 da John Adlum, un famoso viticoltore precoce del Nord America. Prende il nome dal fiume Catawba in North Carolina ed è considerato un ibrido di diverse uve selvatiche – foto 2 sopra) ma il piacere di bere un bicchiere di vino “Nustranell” (il cosiddetto ragett) faceva dimenticare ogni aspetto qualitativo.

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testimonianze storiche, bellezze naturali, fauna e flora di questo territorio:

I SASSI DELLA STREGA

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I MASSI ERRATICI

LE GHIACCIAIE

I CASELLI DELL’ACQUA

L’ANTICO TORCHIO DI MAISANO